Dal Manifesto
MARIUCCIA CIOTTA
Adriano Celentano ha rinventato il servizio pubblico, una Rai come spazio aperto dopo il dikat del Cavaliere? A sentire il coro delle reazioni, ieri, e dopo il boom degli ascolti, 47% di share, sembra di sì. Ma questo c'era da aspettarselo, anche se i commentatori televisivi dei grandi giornali, sempre feroci e sprezzanti verso lo show-man, hanno finto stupore. Il «re degli ignoranti», il qualunquista, il predicatore ha terremotato il piccolo schermo dall'epoca di Fantastico e poi a ogni appuntamento televisivo ha fatto impennare l'audience e trasformato lo «spettacolo» in un congegno corrosivo, macchina ammazza-cattivi, rivoluzione di segni e di sensi. L'onda alta dell'emotività seguita al varietà di giovedì è dovuta allo slittamento semantico dal rock al politik, all'invasione di una sfera per «addetti ai lavori», esplicitata e non più assunta di striscio nei suoi famosi sermoni ecologici, nei suoi «racconti morali» su guerre, povertà, stragi per fame.
Celentano ha esercitato il suo diritto di «carta bianca» per rompere il teatro della politica televisiva, dei suoi salotti, spazi esclusivi, linguaggi e forme. Ha trasformato Michele Santoro, il «prete rosso», in un'ombra leggera, in una voce dall'imbarazzo lirico, presenza tornata in Rai più con le armi del silenzio celentiniano, il balletto e il sorriso, che con la denuncia a voce alta. Ha cancellato i toni grevi degli attacchi preventivi con la visione degli «epurati» in un scorrere di fermo-immagine e brevi citazioni folgoranti, quelle di Biagi, Luttazzi, Grillo. Ha messo in scena i posti vuoti dei blacklisted dell'editto «bulgaro».
Insomma, ha restituito alla politica il suo ritmo, ne ha disegnato il «mondo» in quel solenne set post-metropolitano dove la nostalgia per il tempo passato ha preso i contorni dei casermoni invivibili di periferia, la cancellazione degli spazi pubblici, mentali e materiali. L'idea di una modernità implosa su se stessa, non-luogo, negazione della bellezza condivisa, secondo la lezione dell'antropologo Marc Augé.
Questo risulta intollerabile per la cultura berlusconiana e suoi derivati, l'«infanzia» dell'artista che detta la passione politica, si esprime per «stonature», ellissi poetiche, non-sense, ironia.
Adesso, tutti si interrogano sulla metamorfosi di Adriano Celentano, arruolato per anni dalla destra o considerato innocuo con le sue divagazioni impolitiche. È passato a sinistra? È un paladino prodiano? Peggio. È uno che aizza al «pensiero rock», all'insubordinazione delle forme della politica, uno che si indigna, che richiede metodi di libertà, e non importa essere o no d'accordo con le sue parole. Certamente, però, siamo con lui contro chi le spartisce come armi per vincere le elezioni.
Modificato da Sabin@ 23/10/2005 14.39