IN HOC BIDONE VINCES: UMBERTO, BOBO, IL BIDONE DI VERNICE, E IL SEGNO DEL DESTINO (STELLA)

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INES TABUSSO
00mercoledì 16 novembre 2005 16:50

IN HOC BIDONE VINCES: UMBERTO, BOBO, IL BIDONE DI VERNICE, E IL SEGNO DEL DESTINO (STELLA)


"... quel bidone rovesciato era un segno del destino: per fare la rivoluzione occorre sporcarsi le mani. Nel senso, spiegherà il segretario, che «per cambiare bisogna essere politicamente scorretti»".
da:


CORRIERE DELLA SERA
16 novembre 2005
Umberto e Bobo
Due amici e un bidone (di vernice)
Il Senatùr e la «grazia» a Maroni dopo i dissidi sul ribaltone nel Polo. «Dovevo risarcirlo, gli avevo rovinato l'auto versandoci sopra colore»
Gian Antonio Stella

Il bidone. Chissà se ieri pomeriggio, mentre con Calderoli obbediva agli ordini del Capo di far la guardia al bidone restando lì al banco del governo sfidando la noia e l'abbiocco di uno stracco dibattito nel Senato deserto, a Bobo Maroni è venuto il dubbio che oggi (Dio ne scampi!) qualche alleato furbino possa tirare un bidone alla devolution.
Dieci seggi di vantaggio non sono poi tanti... «Non dico niente: scaramanzia». E chissà se, per quelle curiose associazioni di idee che ti vengono in certi pomeriggi uggiosi, gli è tornato in mente il bidone di vernice con cui cominciò tutto. Perché, nel gran giorno della Lega, questo va detto: quella che oggi va a compiersi col benedicente ritorno di Bossi sulle tribune di Palazzo Madama non è solo la storia di un percorso politico, ma anche la storia di un'amicizia.

Era una notte di tanti anni fa. Il futuro Senatùr e il futuro ministro degli Interni e poi del Welfare, pionieri di quella Lega Lombarda nata a rimorchio della Liga Veneta, battevano le strade della pedemontana varesina per marcare i cavalcavia con quelle gigantesche scritte contro Roma Ladrona con cui stavano facendosi conoscere. A un certo punto, narra la leggenda, una buca fece rovesciare il bidone di vernice. «Porca vacca!», sbottò Umberto. «La mia macchina nuova!», smoccolò Bobo.
Due decenni dopo, finito in disgrazia per essersi opposto al ribaltone contro il primo governo Berlusconi («Avevamo tutto: il centravanti, le punte, le mezzale. Cosa volevamo di più?») avrebbe benedetto l'appiccicosa sventura. Usata da Bossi proprio per spiegare come mai, dopo aver definito «il nostro Bobo un braccio debole da amputare», aveva deciso di graziare l'amico ribelle: «Dovevo ancora risarcirlo per il bidone che una volta gli avevo rovesciato nella macchina nuova» Di più: quel bidone rovesciato era un segno del destino: per fare la rivoluzione occorre sporcarsi le mani. Nel senso, spiegherà il segretario, che «per cambiare bisogna essere politicamente scorretti».

Un'idea che Maroni, seduto su un divanetto del Senato, conserva anche adesso, mentre ammicca al televisore a circuito interno che mostra Francesco D'Onofrio che in aula parla e parla... «Certo le riforme, quelle vere, radicali, profonde, mica potevano farle quelli come lui...». Per questo, prima di esultare come di tanto in tanto esulta il suo cellulare (che come suoneria ha un urlo pazzo di tifosi milanisti in festa) vuole avere il sì definitivo del Parlamento in tasca. «Anche se il peggio dovrebbe essere passato. Il vero rischio era un rinvio. Con la prospettiva di tornare qui a votare sulla devolution magari a febbraio. Una manovrina infida. L'ha sventata Calderoli. In queste cose è bravissimo. Più bravo perfino di Francesco Speroni. Se Speroni si convince d'una cosa regolamentare tiene duro anche se magari ci perdiamo. Lui no. Come diceva il mio professore di penale, per ogni legge si possono sostenere tre o quattro interpretazioni ugualmente valide. Ecco, Calderoli trova sempre quella buona per noi». Quindi nessun rinvio? «No. Queste sono cose che vanno fatte a sorpresa. Ormai è troppo tardi».

Oddio, non è che sulle previsioni sia mai stato forte. Anzi. Un giorno arrivò a dire che la Lega avrebbe preso deputati «non solo al Centro e al Sud, ma anche in Sicilia e Sardegna». Un altro avvertì che le elezioni a venire avrebbero visto «la sparizione dei partiti nazionali». Per non dire di quella volta, nei giorni di passione secessionista quando girava a Montecitorio con volantini intestati «Repubblica Federale della Padania, Governo Provvisorio», che sentenziò: «La proclamazione dell'indipendenza sul Po sarà solo il primo passo di un cammino che nel giro di un anno o due porterà all'Europa delle Regioni. Per questo dico che il 15 settembre entreremo nella storia. E poi suoneremo il rhythm'n blues».
Erano gli anni in cui, teorizzando una continuità tra il suo passato in Democrazia Proletaria e il suo presente leghista («Ho mantenuto la coerenza di chi vuol fare la rivoluzione») era assai meno moderato di oggi. Sfidava i magistrati di Verona che indagavano su di lui presentandosi alla Bbc così: «The leader of the Camicie verdi is seated in front of you». Giurava che «dopo Yalta sarà il Po a restare nella storia». Spiegava alla Padania che mai e poi mai ci sarebbe stato un compromesso: «Vogliamo ribadire, chiaro e forte, che l'autodeterminazione dei popoli padani è una scelta ineluttabile». Plaudiva a D'Alema che voleva la par condicio: «Finalmente ha deciso di porre un freno allo scandalo degli spot televisivi in campagna elettorale. Ho detto scandalo, perché di ciò si tratta. L'assenza di norme vincolanti ha consentito che nelle ultime elezioni i riccastri della politica inondassero di faccioni sorridenti gli schermi delle tv private».

Anche adesso, del Cavaliere, c'è qualcosa che gli è rimasto qui, nel gozzo. Lo stop imposto alla sua riforma del Tfr, bloccata perché così com'è dava fastidio alle assicurazioni, come la berlusconiana Mediolanum: «Lo sapete quanto ha fatto, nei primi nove mesi di quest'anno, offrendo le sue nuove polizze vita? Il 41 per cento di aumento degli utili sul 2004. Dico: il 41 per cento! Con dei meccanismi per cui, se tu versi mille euro e sei costretto a ritirarli l'anno dopo, te ne ritrovi duecento».

Certo, gli secca. «Ma se passa la mia riforma...». Lasciamo stare: la devolution, per un leghista come lui, val bene qualche rospo da ingoiare. E poi? Il referendum confermativo? «Dipende da come andranno le elezioni. Se vinciamo noi vinciamo alla grande anche i referendum, se perdiamo poi perdiamo alla grande anche i referendum». Per questo, sospira, lui e la Lega avrebbero preferito votare insieme, politiche e referendum, lo stesso giorno: «Sono più di dieci anni che a ogni referendum invitiamo la nostra gente a non andare a votare. Non sarà facile, spiegare che stavolta...». Vabbè, basta adesso, ci si penserà domani...
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