GIORGIO AMBROSOLI

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INES TABUSSO
00sabato 27 agosto 2005 09:03

Grazie a Betti che ha fatto la proposta, e a Lizaliza che ha immediatamente
e generosamente provveduto (io non avrei potuto, perche' ho solo il giornale
di carta).
Quando ho visto il loro messaggio

www.freeforumzone.it/viewMessaggi.aspx?f=67699&idd=197
stavo preparando alcuni post per la rassegna e, siccome le cose che stavo
leggendo erano proprio deprimenti, il fatto di pensare a Giorgio Ambrosoli
mi ha, in un certo senso, dato fiducia: esistono persone come lui, magari
non le conosciamo, non se ne parla, ma fortunatamente esistono, ed e' grazie
a loro che in Italia tiriamo avanti.



Corrado Stajano - Semplicemente onesto - Unità 26/8/05

Commenti

Storie italiane

Il 27 settembre il sindaco Walter Veltroni conferirà al presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi la cittadinanza onoraria di Roma capitale. In occasione della visita ufficiale alla città, Ciampi terrà a battesimo una nuova strada, il Largo Giorgio Ambrosoli, all’interno di villa Paganini, sulla Nomentana. Un evento di grande rilevanza simbolica del quale saranno testimoni la moglie e i figli dell’avvocato di Milano assassinato l’11 luglio 1979 da un killer della mafia, su mandato di Michele Sindona e della politica sporca.
Perché, ventisei anni dopo, la morte di un uomo che si fece uccidere in nome dell’onestà, che disse di no alle compromissioni, agli ambigui patteggiamenti, alle lusinghe, alle minacce, ha conservato tutto il suo significato morale, civile, politico? Perché anche in Italia esiste un passato che non passa e che non aiuta a progredire se la rottura con le vecchie pratiche della corruzione e dell’oscuro agire non sarà al centro di un programma di governo capace di ridare forza e fiducia a una parte consistente della comunità nazionale che spesso non ne vuole più sapere e si chiude in casa minata dalla delusione.
Quelle intercettazioni tra banchieri, spicciafaccende e prestanome, pubblicate quest’estate - le Opa della Banca di Lodi, dell’Unipol, la scalata della Rcs e del Corriere della Sera - hanno risuscitato purtroppo i fantasmi di quel che accadde alla fine degli anni Settanta. Senza cadaveri, per fortuna, ma purtroppo simile, nei toni, nel linguaggio, nell’intrigo, nell’arroganza dei protagonisti, sicuri delle loro alte protezioni, ai fatti d’allora. Solo che nel 1979 la Banca d’Italia tenne duro, fu indipendente e lo sa bene Ciampi che ne era il direttore generale. Il governatore Paolo Baffi e il capo della Vigilanza Mario Sarcinelli pagarono a duro prezzo il loro limpido agire in nome della Repubblica. E fu tragicamente diverso, rispetto al meschino presente, il comportamento dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore delle banche mandate in rovina da Sindona. È sufficiente rileggere la lettera che l’avvocato, nominato a quella carica dal ministro del Tesoro nel 1974, scrisse neppure un anno dopo alla moglie. Un testamento: «Sono pronto per il deposito dello stato passivo della B.P.I., atto che ovviamente non soddisferà molti e che è costato una bella fatica. Non ho timori per me perché non vedo possibili altro che pressioni per farmi sostituire, ma è certo (...) che il fatto stesso di dover trattare con gente di ogni colore e risma non tranquillizza affatto. È indubbio che in ogni caso pagherò a molto caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un’occasione unica di fare qualcosa per il Paese. Ricordi (...) le speranze mai realizzate di far politica per il Paese e non per i partiti: ebbene, a quarant’anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito. Con l’incarico ho avuto in mano un potere enorme e discrezionale al massimo ed ho sempre operato - ne ho la piena coscienza - solo nell’interesse del Paese, creandomi ovviamente solo nemici. (...) Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo; dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali abbiamo creduto. (...) Abbiamo coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il Paese, si chiami Italia o si chiami Europa».
Sono anni insanguinati dalla violenza e dal terrorismo. Nel 1979 viene assassinato a Milano Emilio Alessandrini, valoroso magistrato che scoprì oscure trame indagando sulla strage di piazza Fontana. È l’anno dell’uccisione di Mino Pecorelli, del finto sequestro di Sindona che proprio nel periodo in cui viene assassinato l’avvocato Ambrosoli scorrazza indisturbato per Palermo e per la Sicilia. È l’anno dell’assassinio del capo della Squadra Mobile palermitana Boris Giuliano e del giudice Cesare Terranova.
E il 1980 è l’anno della cattura di Patrizio Peci, misterioso brigatista che svela i segreti delle BR, è anche l’anno del caso di Marco Donat Cattin, il comandante Alberto di Prima linea, figlio del vicesegretario della Dc, e del processo, in Parlamento, in cui il presidente del Consiglio Cossiga, accusato di favoreggiamento - i conversari col padre del terrorista assassino - viene scagionato.
È anche l’anno in cui la Loggia massonica P2, che si è movimentata dopo le elezioni del 20 giugno 1976, terrorizzata per il grande successo del Pci, affiliando ministri, i capi dei servizi segreti, generali, banchieri, direttori di giornali, parlamentari, fa la sua comparsa ufficiale.
L’8 ottobre 1980 esce sul Corriere della Sera un’intervista di Maurizio Costanzo, affiliato alla Loggia, al Gran maestro Licio Gelli. Qualche giorno prima il direttore del Corriere Franco Di Bella, altro piduista, dice al caposervizio di lasciare libera per la prossima domenica la spalla della terza pagina. Una prenotazione al buio. Non spiega di più. Passa un giorno e il vicedirettore dice al caposervizio, Cesare Madail, che quella spalla di terza è destinata a un’intervista a Licio Gelli, il capo della P2. Il testo viene consegnato al caposervizio il venerdì, con il titolo, il sommario e l’occhiello già fatti. «Parla, per la prima volta, il signor P2», è il titolo. «Il fascino discreto del potere nascosto», è l’occhiello. Il sommario è più articolato: «Licio Gelli, capo indiscusso della più segreta e potente loggia massonica, ha accettato di sottoporsi a un’intervista esponendo anche il suo punto di vista». E poi una specie di programma che si ritroverà nel «Piano di rinascita democratica» trovato (fatto trovare) nella borsa della figlia di Gelli a Fiumicino e che anni dopo sarà in parte realizzato dal governo Berlusconi.
Cesare Medail, dunque, ha l’ordine tassativo di non tagliare neppure una riga. Per le illustrazioni gli viene detto di farsi consigliare da Maurizio Costanzo, l’intervistatore, allora direttore dell’Occhio, un catastrofico quotidiano popolare della Rizzoli che durerà poco, Costanzo consiglia Cagliostro e Garibaldi, i precursori. Cagliostro è in un ritratto ovale. Succede che il testo cresca di venti righe rispetto all’impaginato. Il direttore e il vicedirettore, quel sabato pomeriggio non ci sono. Il caposervizio chiede lumi al redattore capo. La decisione è di tagliare Cagliostro, non Gelli, sacrale. Il petto di Cagliostro. Da ovale il ritratto diventa una specie di mezzaluna.
Tutto dimenticato? Guai a chi parla della P2. Un Club di gentiluomini, lo definisce l’attuale presidente del Consiglio. Peccato che gli allora giudici istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone siano arrivati alle liste di Gelli indagando sulla mafia, sul finto rapimento di Sindona in Sicilia e sull’assassinio Ambrosoli.
Fastidioso anche l’uso della parola morale. Lo spiegò bene Enrico Berlinguer, con l’ostinazione e con la fatica che gli costarono la vita, come la questione morale sia l’essenza della questione politica.
È un buon segno, quindi, un piccolo segno importante, dopo quest’estate in cui si è risentito l’odore di marcio di più di vent’anni fa, che Carlo Azeglio Ciampi faccia da padrino a Roma alla via dedicata a un uomo semplicemente onesto.



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