Che poi...

altrodase
00domenica 5 aprile 2009 23:15
da uno sfogo di una mia amica:

No, è che non sono capace di scrivere quando sto bene, scorre tutto leggero e le parole seguono il corso superficiale del rivolo quotidiano, in un certo qual modo mi sento più simile alla gente, capita anche di annoiarmi dalla troppa stabilità interiore ma insomma me la godo per ora e i travagli non li creo ad hoc solo per incastrare al posto giusto parole come cubi di rubik.

Che poi non hanno un posto giusto.

Che poi ho l’umore che varia ogni sessanta minuti e l’incostanza è la sola costante che mi rappresenta.

È che quando non ci sono significa che va bene e lo dico ai tre gatti randagi che mi leggono sempre e mi chiedono che sta succedendo. Non ho nulla di significativo da voler condividere, sono alquanto egoista con i tesori e li celo dentro mentre gli scazzi li condivido volentieri.

Che piuttosto di dirvi quanti peli mi sono spuntati sul pube preferisco variare la playlist.

Che si prospetta un bel mese in cui mi pagheranno per essere ciò che sono e non per essere ciò che vogliono.

Che alla fine ciò che sono adesso è quello che vogliono e piantala di lottare contro i mulini a vento.

Che ringrazio il noioso e flemmatico professore di mezza età e quello smilzo, occhialuto e bigotto

per aver tramutato il mio quarto d’ora accademico in anno sabbatico.

Che se non fosse per loro non avrei incrociato un sentiero meno prevedibile rispetto a quello che avevo davanti.

Che sento la mancanza di un sommo professore per cui provo ancora profondo rispetto e devozione.

E vi direi che ci siamo posseduti mentalmente dopo ogni lezione.

Che li avrei leccato la mente.

Che colleziono medaglie di bronzo perché l’adulterio non è rientrato

nella relazione più duratura che ho avuto ma sono sempre stata terza in tutte le altre.

Che a volte risulta conveniente far credere di non aver compreso quando si comprende alla perfezione.

Che non apprezzo il vittimismo ma non posso non sentirmi parte di questo articolo:

“Abbiamo venticinque anni, forza. Riprendiamoceli questi vent’anni. Li abbiamo adesso con il contratto a progetto e la rata della macchina e l’affitto. Voi li avete avuti negli anni Settanta. Guardateci. Guardatevi. Come dite? Era così anche prima?Allora smettete di sentirvi voi stessi e provate a sentirvi noi, per un attimo. Riconciliatevi con i quarantacinque giri, le passioni estremizzate, le contestazioni. Sforzatevi. Non è stata la vostra età migliore, ma tornateci. Riuscite a sentirvi vivi? Vivi e arrabbiati, insicuri, irrisolti come vi sentivate allora, desiderosi di farcela, affamati di qualunque cosa, curiosi, volitivi all’ennesima potenza, pronti a battervi? Guardatevi come eravate giovani. Guardatevi come eravate allora, ma adesso. Lanciatevi in picchiata lungo una strada che dà sulla fine del mese. Altro che sterminati orizzonti .La verità cari politici, cara società di adesso, cara classe dirigente, cari adulti e vaccinati, cari sapientoni che non siete altro, è che noi non riusciamo a pensare al futuro, perché voi non sapete badare al presente. Tra i vostri vent’anni di allora e i nostri di adesso, c’è di mezzo un precipizio. Il salto generazionale sapete dove ficcarvelo.”

Che andare all’ufficio dell’impiego e osservare quanti giovani richiedono lo stato di disoccupazione è la sconfitta sulla linea di partenza senza aver ancora avuto la possibilità di mettersi in gioco.

Che ho sempre pensato che il lavoro non nobilita l’uomo a meno che non coincida con le sue passioni e li consenta di evolversi interiormente, il resto imbruttisce.

Che nei miei sogni c’è una casa in montagna, senza prole, l’orto e delle spese gestibili che tolti i libri dei soldi non so che farmene.

Che mettere a questo mondo dei figli lo trovo un atto egoistico che passa dall’idea di sconfitta della solitudine, le proiezioni del nostro ego sulla sua crescita o la convinzione che la vita sia infinita e fa pipì santa e vogliamo sparpagliare i nostri geni nel mondo che “qualcosa di me proseguirà”.

Che sono per l’estinzione del genere umano o perlomeno l’avvicinarsi della sua estinzione.

Che solo quando sentiremo all’unisono la tragedia alle porte cominceremo a mettere seriamente a posto le cose.


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